Category Archives: Archivio

Nature morte: la parabola della vita nei tulipani di Andrea Belvedere

 

Nella grande storia della pittura le cosiddette “nature morte” hanno la loro più nobile espressione

nella “Canestra di frutta” (circa 1596) di Caravaggio,

oggi alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano, alla quale molte altre seguono per l’intero Seicento sia in Italia, sia nei Paesi nordici.

Nelle sue preziose “Vite” l’aretino Vasari, osservatore attento e acuto del mondo artistico e delle nuove tendenze emergenti, già a metà del XVI secolo scrive di dipinti di “cose naturali, di animali, di drappi, di strumenti”. In merito osserviamo che quell’opera del giovane Caravaggio (1571-1573 – 1610), rimasto suo unico esempio, appare di tal bellezza da consacrare definitivamente la dignità di categoria pittorica autonoma a quelle raffigurazioni che, fin ad allora, per lo più rappresentavano un mero ornamento aggiuntivo e complementare nell’articolato disegno complessivo di un dipinto.  È per lui la conclusione di un ciclo di studi su fiori e frutti, in una bottega d’arte romana, decisivo nella sua formazione, di cui nulla purtroppo è giunto.

Dicevamo che al nuovo genere arride fortuna sia in Italia, sia nell’Europa del Nord. Qui, in particolare nei Paesi di lingua fiamminga, con la Riforma luterana si registra, a notevole discapito delle opere di arte sacra nei luoghi di culto, un contrapposto forte incremento di questi dipinti, contenuti nelle misure, che divengono, sulle pareti soprattutto delle sobrie dimore  di mercanti e artigiani, quel che oggi è detto complemento di arredo, ma anche – osserva Andrea Marmori – “l’occasione di illustrare, adombrati oltre la rappresentazione degli oggetti mostrati, concetti basilari della dottrina, per via di metafora”.

Ai lettori della “Nazione” di sabato 15 agosto, fra “I Tesori del Lia”, il direttore Marmori presenta di questa pittura innovativa la tela di Andrea Belvedere.

Questi, talentuoso partenopeo (circa 1646-1652 – 1732), poi scenografo, attivo dalla fine degli anni Sessanta del XVII secolo nella sua città e successivamente in Spagna, è uno dei pochi pittori, definiti “fioranti”, che proseguono tale indirizzo esclusivo introdotto a Napoli, alcuni decenni prima, da Giacomo Recco. In una piccola tela egli rappresenta, su fondo scuro e con disposizione quasi circolare, tulipani in vaso colti nei momenti cruciali della loro vita: quando il giovane vigoroso stelo sugge dall’acqua l’energia vitale, prima, al timido e lento schiudersi della corolla di petali – un anelito naturale ad effondere il profumo – poi, alla spavalda completa apertura del fiore, affascinante mera illusione di forza che, invece, prelude all’imminente declino dello stelo, ormai privo di linfa.

Abbiamo parlato di corolla di petali, ma sarebbe forse più proprio dire “turbante”, anche per ricondursi all’origine del nome tulipano, che viene dal termine turco “tülbend”, cioè turbante – per la somiglianza di questo copricapo orientale con la forma avvolgente del fiore prima del suo schiudersi – come narra Andrea Marmori, fonte continua di notizie e curiosità intreccianti la storia dell’arte. Come quella, rimanendo in Anatolia, che nel nostro Vecchio Continente la fortuna del tulipano ha inizio nel 1554 quando l’ambasciatore dell’impero asburgico sottrae questo fiore, ancora sconosciuto in Europa, dai bellissimi giardini del palazzo Topkapi, allora residenza dei sultani ottomani sul promontorio di Istanbul che sovrasta le acque del Bosforo confluenti nel mar di Marmara.

Belvedere, si racconta, cela ostinatamente la sua vera età, turbato forse dallo scorrere degli anni, come tende a dimostrare anche la scelta artistica palesata in questo dipinto, dove, sia pure per via di metafora trasferita al mondo della botanica, egli coglie e raffigura l’eterno compiersi della parabola esistenziale che regola la vita di ogni abitante del pianeta.

“…

Un filo di vento

la vita.”  (1)

 

 

Pier Paolo Meneghini

 

(1) I due versi conclusivi sono tratti da Giuseppe Donateo, “Un filo di vento”, pag. 7, Edizioni dell’Erba, 2019, Fucecchio (FI), opera di poesie partecipante alla VIII edizione 2020 del Premio Letterario Internazionale “Città di Sarzana”.

Giampietrino: Devozione e Arte di scuola leonardesca nella ricca Milano

Giampietrino: Devozione e Arte di scuola leonardesca nella ricca Milano

Nel 1482, con l’arrivo di Leonardo a Milano da Firenze, “come dono del Magnifico al Moro” – annota Andrea Marmori – la storia della pittura lombarda si arricchisce con dipinti devozionali di contenuta misura. Il Maestro, oberato da gravosi incarichi professionali alla corte degli Sforza, non riesce più a soddisfare, come in Toscana, le numerose richieste che egli affida quindi agli ispirati allievi della sua bottega d’arte meneghina, sotto il proprio sapiente indirizzo.
Discepoli totalmente fedeli al Genio tanto da assimilarne, per quanto possibile, lo spirito e nelle maniere il segno, come traspare nella luminosa “Madonna col Bambino e San Giovannino”, opera del Giampietrino già attribuita a Leonardo. Il direttore del Museo Lia la pone sotto sua attenzione, domenica 2 agosto, nel simpatico e intelligente colloquio settimanale instaurato con i lettori spezzini della “Nazione”, in questo lungo periodo di difficoltoso accesso del pubblico ai luoghi di cultura.
La tradizionale operosità e conseguente ricchezza dei committenti milanesi, allora come oggi, è sicuramente alla base del “Ma che sorpresa!” proferito da Andrea Marmori verso questo dipinto, realizzato per illustrare un’elegante dimora.

 

 

 


L’ambientazione inusuale del “sacro dialogo” concede alla Madonna abito e gemme di pregio e una fine acconciatura, s’impreziosisce di un vaso a doppia ansa con coperchio, oggetto forse in rame ed argento, colorato a ripresa della veste, ma non riesce a sopraffare il senso religioso che il Giampietrino, al secolo Giovan Pietro Rizzoli (circa 1480/1485 – 1553), immette nel suo ordito.
Sul fondo della tela una tenda scura occlude il resto: non solo essa rende molto intima la sacra scena, ma rimbalza in avanti ed esalta lo splendido pallido ovale della Madre, che diventa il centro dell’interesse, calamita l’attenzione e La espone in una posa involontaria.
Ma quello stesso fondo buio e scuro, sul quale il bel vaso si staglia, fa presagire – propone sottilmente Andrea Marmori – la fugacità stessa dell’oggetto, come di tutte le cose terrene, destinato quindi a veder dileguare la propria consistenza materica e simboleggiare il significato transeunte della vita. Questo ricorda agli uomini anche la Mela, appaiata al vaso, chiara allusione alla cacciata dal Paradiso e alla faticosa strada da percorrere per la salvezza dell’anima.

Pier Paolo Meneghini

Andrea Marmori svela alla “Nazione” il Tintoretto del Lia

La grande stagione pittorica di Venezia, iniziata con i colori caldi e la visione olimpica di Tiziano, prosegue con le pennellate ingegnose del giovane Tintoretto, che fa dell’inventiva e dell’uso funzionale della luce i suoi punti di forza.
Figlio di un tintore di panni e sete, da cui il suo amabile appellativo (forse la sua fortuna), e quindi iniziato fin dalla tenera età alla mescola dei colori, li trasfonde nelle tele personalizzando a suo modo figure, eventi, storie con l’aiuto della sua inusuale “velocità di scrittura”. Così Andrea Marmori qualifica la sua naturale predisposizione al disegno nel quarto spunto dei “Tesori del Lia”, domenica 12 luglio, a beneficio dei lettori spezzini della “Nazione”.
Tintoretto sarà per tutta la vita (1518-1594) l’inarrivabile narratore di Venezia e delle vicende storico-religiose della sua città, dalla quale mai si allontanò, come fosse “rapito” dalle bellezze e dagli ambienti, straordinari, che emergono, allora più che oggi, dalle acque di quella che può ben chiamarsi la “Regina del Mare”.
” … Nelle cose della pittura stravagante, capriccioso, presto e risoluto et il più terribile cervello che abbia avuto mai la pittura, come si può vedere in tutte le sue opere e ne’ componimenti delle storie, fantastiche e fatte da lui diversamente e fuori dell’uso degl’altri pittori.” Così il Vasari, storiografo toscano, nell’edizione del 1558 delle sue “Vite”, dove “terribile” – interpreta il direttore del Museo Amedeo Lia – sta per “sorprendente e dotato, a dirne subito l’ingegno straordinario e il vigore inventivo.”
Jacopo Robusti, questo il suo nome, vede aprirsi una carriera ricca di fama e di committenti – percorsa senza arresti, con spavalderia, sottolinea Marmori – con incarichi che gli danno agio d’illustrare i temi a lui cari: realizza principalmente le opere della Scuola Grande di San Marco e il ciclo della Scuola Grande di San Rocco, è presente nelle chiese cittadine e lascia molti ritratti. Una produzione innumerevole e talora frenetica, fino a tarda età, grazie alla sua velocità di pensiero-scrittura.
La sicurezza sembra incrinarsi con l’avanzare degli anni, che per di più è concomitante con la calata in città, nel 1553, del grande pittore detto il Veronese, la cui rivalità può minare una supremazia artistica fino ad allora incontrastata. Eppure, anche in questo momento, nella “Deposizione” del nostro Museo Lia (1555-1556), Tintoretto mostra di sapersi adeguare al “nuovo venuto”, innova se stesso, crea e adotta gialli e rosa di grande eleganza e pastosità, ammorbidisce i suoi tradizionali toni accesi e squillanti, talora anche cupi, ma pur sempre percorsi da bagliori improvvisi di luce, e nel dipinto inserisce l’ambiente, come mai prima.


Sotto un’inedita veste cromatica rimane, però, inalterato il senso drammatico che pervade sempre l’animo di Tintoretto: qui la scena del Golgota con Cristo disteso esanime ai piedi della Croce, la Madre Maria riversa a terra, venuta meno per l’indicibile dolore, nella quasi identica postura del Figlio, le Donne scomposte, disperate, piangenti.
Concludiamo con un plauso, tutto meritato, al dottor Andrea Marmori, la cui puntuale analisi storica ed estetica, oltre che molto appropriata stilisticamente, riesce a far penetrare gli appassionati, e non solo, nell’anima delle opere d’arte del Lia che egli propone al pubblico.

Pier Paolo Meneghini

Andrea Marmori: inizio della Ritrattistica nell’Arte

 

Andrea Marmori per “La Nazione”

Andrea Marmori si conferma sia formidabile esteta della parola, sia padrone assoluto nella conoscenza delle arti raffigurative e della evoluzione di esse nel volgere del tempo grazie al sentire di grandi artisti interpreti delle realtà sociali e politiche che cambiano.

Nel 2019 il Premio Letterario “Città di Sarzana” gli ha conferito il Premio alla Carriera con la motivazione che egli è “la testimonianza diretta di quanto i doni della sua stirpe abbiano prodotto frutti copiosi.
Nella lunga e proficua carriera ha sempre dimostrato di unire nell’armonia le vaste e approfondite conoscenze di storia dell’arte – significative e apprezzate le numerose pubblicazioni specialistiche di cui si fregia – a felici intuizioni e scelte ideative applicate alla realtà museale, a capacità professionali nel coordinare il lavoro di squadra.
Direttore del Museo Amedeo Lia della Spezia, definito Il piccolo Louvre, la sua eleganza nel porgere la Bellezza, nelle molteplici forme, ha concorso a coinvolgere migliaia di visitatori italiani e stranieri e ad avvicinare le nuove generazioni alla lettura dell’Arte attraverso i secoli.
Ancora oggi, per Andrea Marmori, modello di intelligenza e laboriosità italiane, le passioni e l’impegno di una vita continuano … “(Marisa Vigo)

Nel terzo dei suoi spunti, offerti alla “Nazione” di domenica 5 luglio 2020, conduce il lettore nella grande Pittura del Quattrocento, quando nasce il Ritratto del Personaggio.

 

Il fine è quello di attribuire a questi forza e potere nell’attualità del momento storico in cui egli vive, corroborando così il ruolo politico e sociale insieme della sua figura nella Comunità.
Trattasi di un completo ribaltamento di quanto nell’arte si era affermato fino al basso Medioevo, un lungo tempo nel quale l’uomo pubblico aveva trovato memoria figurativa di sé soltanto nella scultura funeraria all’evidente scopo del ricordo a posteriori, formando con la realtà viva un legame storicizzato e quindi sicuramente più labile.
I volti posti di profilo delle prime raffigurazioni quattrocentesche rivelano, tuttavia, discendenza indiscutibile dalle monete e medaglie: come queste sono fredde e carenti di contenuti introspettivi, tendono ad esaltare la funzione pubblica del rappresentato, colto in vesti ufficiali, senza indulgere alla minima personalizzazione. Proprio come avviene nella bella tavoletta di Gentile Bellini, conservata al Museo Lia, recante i lineamenti del procuratore della Repubblica di San Marco, opera della fine del XV secolo, che ben interpreta la realtà aristocratica e gerarchizzata di Venezia, pur la città più cosmopolita del tempo, dove, si osserva, le posture di profilo e frontale persistono, in parallelo, per tutto il Cinquecento.

È la dimostrazione palpabile che anche nell’arte i nuovi processi ideali maturano lentamente e per compiersi, realizzarsi necessitano di una forte, prorompente Personalità, come fu quella di Tiziano Vecellio, un figlio delle splendide Dolomiti del Cadore. Il suo “Ritratto d’uomo”, patrimonio anch’esso del nostro Museo Lia, segna la definitiva affermazione nella Pittura del “mezzobusto frontale” del Personaggio, che però, in questo caso, cessa di essere tale per divenire Uomo, protagonista della tela in un equilibrio di colori – luci fioche – ombre dense, senza definizione né di ruoli sociali, né di vesti illustrative del suo status, in un ambiente affatto privo di particolari: serrate le labbra, il capo si torce leggermente verso il centro del dipinto, andando a configurare quello che il direttore Andrea Marmori interpreta come un trepido sguardo fissato in eterno.

Pier Paolo Meneghini

VideoGallery 2019