Se “Canestra di frutta” (1596) di Caravaggio apre la strada alle “nature morte”, è altrettanto vero che “Fuga in Egitto” di Annibale Carracci (1560 – 1609), di qualche anno dopo (circa 1604, Roma, Galleria Doria Pamphili), ove il tema narrativo del sacro rimane soverchiato dalla descrizione naturale circostante e si lega anzi armoniosamente ad essa, spiana gli orizzonti artistici alle opere che sottraggono il paesaggio alle “finestre” ambientali di mero sfondo e lo rendono il protagonista dell’ordito pittorico.
Nel corso del Seicento nasce la gerarchizzazione dei generi che, pur relegando paesaggi e soprattutto nature morte fra i temi minori rispetto a quelli nobili, quali soggetti sacri o mitici o storici o la ritrattistica, ha il pregio, tuttavia, di sancirne un indiscutibile riconoscimento a livello internazionale. Solo la critica moderna abbandonerà ogni pregiudizio verso le composizioni ispirate alla vita di ogni giorno, valutandone il valore intrinseco.
Nel XVII secolo i giovani intellettuali europei delle famiglie nobili ed abbienti, fortemente attratti dalle letture dei classici, vistasi preclusa la visita della Grecia sotto dominio ottomano, privilegiano l’esperienza di suggestioni percepibili a diretto contatto delle meraviglie paesaggistiche, monumentali e artistiche offerte, a completamento formativo, da un grande viaggio d’istruzione in Italia. Questa esigenza viene avvertita dapprima in Gran Bretagna, un ambiente da sempre culturalmente incline al mondo ellenico e latino, poi anche in Nord e Centro Europa.
Il viaggio del Grand Tour può durare mesi ed anche anni, tocca le nostre città d’arte e lascia non solo un significativo ricordo, ma soprattutto un grande arricchimento nell’esperienza personale di vita.
Accompagnano questo fenomeno europeo, sia pure di élite, le tele, senza dubbio ascrivibili al genere pittorico del paesaggio, che riproducono, anche con estro, esattamente quanto osservabile in un determinato sito archeologico. Ad esse si affiancano i cosiddetti “Capricci”, nati forse per compiacere il granturista, desideroso di portare con sé in Patria una composita e preziosa memoria di quanto visto, oppure per fantasiosa e stravagante scelta artistica, indulgente alla scenografia.
Di questi, che sono completamente immaginari, privi degli elementi di tempo e spazio, ai quali l’ispirazione non dà la minima importanza, fornisce un bell’esempio, fra i “Tesori del Lia”, la tela del piacentino Giovanni Paolo Panini (1691-1765) che Andrea Marmori propone ai lettori della “Nazione”, domenica 30 agosto, annotando nel titolo di presentazione, sempre pregnante, come sia una “cartolina dall’antichità” intrisa di “lucida follia”.
Giunto ventenne a Roma, egli è apprezzato da vari prestigiosi committenti per l’indubbia capacità di contemperare, in evocative illustrazioni di vedute e rovine classiche, maniere visionarie con precisione ed eleganza di scrittura, avvalendosi anche dei giovanili studi in seminario di geometria e di prospettiva.
Nel “Capriccio con il Colosseo”
questo campeggia imponente in un terso verde paesaggio irreale, popolato da istoriati ruderi di monumenti antichi raggruppati in modo non verosimile, dove, al centro, su di un frammento che fa loro da piedistallo, un soldato e un filosofo sono in affabile dialogo. I due personaggi sembrano comunicare che il mondo, da sempre privo di equilibrio e pace, ha necessità invece che queste due anime non si limitino a convivere nella quasi reciproca indifferenza, ma tengano responsabile conto l’una dell’altra. Pura utopia? Forse.
Pier Paolo Meneghini