Andrea Marmori svela alla “Nazione” il Tintoretto del Lia
La grande stagione pittorica di Venezia, iniziata con i colori caldi e la visione olimpica di Tiziano, prosegue con le pennellate ingegnose del giovane Tintoretto, che fa dell’inventiva e dell’uso funzionale della luce i suoi punti di forza.
Figlio di un tintore di panni e sete, da cui il suo amabile appellativo (forse la sua fortuna), e quindi iniziato fin dalla tenera età alla mescola dei colori, li trasfonde nelle tele personalizzando a suo modo figure, eventi, storie con l’aiuto della sua inusuale “velocità di scrittura”. Così Andrea Marmori qualifica la sua naturale predisposizione al disegno nel quarto spunto dei “Tesori del Lia”, domenica 12 luglio, a beneficio dei lettori spezzini della “Nazione”.
Tintoretto sarà per tutta la vita (1518-1594) l’inarrivabile narratore di Venezia e delle vicende storico-religiose della sua città, dalla quale mai si allontanò, come fosse “rapito” dalle bellezze e dagli ambienti, straordinari, che emergono, allora più che oggi, dalle acque di quella che può ben chiamarsi la “Regina del Mare”.
” … Nelle cose della pittura stravagante, capriccioso, presto e risoluto et il più terribile cervello che abbia avuto mai la pittura, come si può vedere in tutte le sue opere e ne’ componimenti delle storie, fantastiche e fatte da lui diversamente e fuori dell’uso degl’altri pittori.” Così il Vasari, storiografo toscano, nell’edizione del 1558 delle sue “Vite”, dove “terribile” – interpreta il direttore del Museo Amedeo Lia – sta per “sorprendente e dotato, a dirne subito l’ingegno straordinario e il vigore inventivo.”
Jacopo Robusti, questo il suo nome, vede aprirsi una carriera ricca di fama e di committenti – percorsa senza arresti, con spavalderia, sottolinea Marmori – con incarichi che gli danno agio d’illustrare i temi a lui cari: realizza principalmente le opere della Scuola Grande di San Marco e il ciclo della Scuola Grande di San Rocco, è presente nelle chiese cittadine e lascia molti ritratti. Una produzione innumerevole e talora frenetica, fino a tarda età, grazie alla sua velocità di pensiero-scrittura.
La sicurezza sembra incrinarsi con l’avanzare degli anni, che per di più è concomitante con la calata in città, nel 1553, del grande pittore detto il Veronese, la cui rivalità può minare una supremazia artistica fino ad allora incontrastata. Eppure, anche in questo momento, nella “Deposizione” del nostro Museo Lia (1555-1556), Tintoretto mostra di sapersi adeguare al “nuovo venuto”, innova se stesso, crea e adotta gialli e rosa di grande eleganza e pastosità, ammorbidisce i suoi tradizionali toni accesi e squillanti, talora anche cupi, ma pur sempre percorsi da bagliori improvvisi di luce, e nel dipinto inserisce l’ambiente, come mai prima.
Sotto un’inedita veste cromatica rimane, però, inalterato il senso drammatico che pervade sempre l’animo di Tintoretto: qui la scena del Golgota con Cristo disteso esanime ai piedi della Croce, la Madre Maria riversa a terra, venuta meno per l’indicibile dolore, nella quasi identica postura del Figlio, le Donne scomposte, disperate, piangenti.
Concludiamo con un plauso, tutto meritato, al dottor Andrea Marmori, la cui puntuale analisi storica ed estetica, oltre che molto appropriata stilisticamente, riesce a far penetrare gli appassionati, e non solo, nell’anima delle opere d’arte del Lia che egli propone al pubblico.
Pier Paolo Meneghini