Autoritratto di Pontormo: un vagar di sguardo, nella solitudine

Autoritratto di Pontormo: un vagar di sguardo, nella solitudine

 

 

In tenuta di pittore lo stesso Pontormo si descrive e ci guarda, torcendosi, dal fondo di una tegola di terracotta che incide con la propria sembianza e poi colora. È un volto luminoso, con accese tonalità di contrasto, quello di Jacopo Carucci o Carrucci (1494 – 31 dicembre 1556 o 1 gennaio 1557), che deriva dal nativo sobborgo Pontorme di Empoli l’appellativo con cui meglio lo conosciamo.

Giorgio Vasari nelle “Vite” introduce alla sua non semplice personalità quando scrive: “guastando e rifacendo oggi quello che aveva fatto ieri si travagliava di maniera il cervello, che era una compassione”.

A questo toscano e al suo celebre autoritratto (circa 1520), fra le opere del museo civico spezzino di via del Prione, Andrea Marmori dedica significativamente la Prima Pagina, quella inaugurale, domenica 21 giugno 2020, della bella rubrica “I Tesori del Lia” promossa in collaborazione con il quotidiano locale “La Nazione”.

Le note biografiche ricavabili dall’opera di Vasari (edizione del 1568) parlano di una infanzia di Jacopo funestata, già a cinque anni, dalla perdita del padre, a dieci, da quella della madre, eventi che lo incupiscono e tormentano fino a renderlo, rimasto solo e affidato alla nonna materna, scontroso e solitario, nel prosieguo della vita forse anche – con termini moderni – lunatico, asociale e un poco bohémien. Come si può pensare dalle circostanze che quando, trentacinquenne, acquista una casa che utilizza anche per bottega, sollevata dal suolo come una specie di palafitta, si poteva salire al piano superiore della stessa solo mediante una scala di legno retrattile, impedendone così l’accesso ai  visitatori che non gli fossero graditi; o da quella ancora che negasse spesso ai suoi committenti la visione del dipinto finché questo non fosse terminato.

A Firenze, dove vive dai tredici anni e rimane praticamente sempre, fin da giovanissimo s’invaghisce dell’arte di materializzare storie, momenti di vita e stati dell’animo in disegni e colori, facendo brevi esperienze nelle botteghe di Leonardo, Mariotto Albertinelli e Piero di Cosimo, ma soprattutto di Andrea Del Sarto (qui, sedicenne, incontra Andrea di Cosimo e il Rosso Fiorentino con il quale collabora).

La tegola Lia sembra raffigurare, con le parole del direttore Marmori, uno di quei suoi non rari “momenti di inattività fisica ma di grande e profondo travaglio mentale e, più ancora, spirituale. L’artista … si ferma, si volta e si ritrae, senza espedienti né artifici” e ci cattura con “occhi raminghi”, come “rapiti”.

Nella chiesa fiorentina di Santa Felicita (Cappella Capponi) il personaggio di destra, identificato come Nicodemo, nella celebre sua “Deposizione” assume “… la stessa torsione del capo e lo stesso sguardo del dipinto Lia, smarrito ma fisso”.

Dalla critica del suo tempo ed anche dalla successiva è poco considerato, sulla scia probabilmente del giudizio sulle sue opere sacre della maturità espresso dal Vasari che, in epoca di Controriforma, vede in esse l’influenza di artisti nordici (Dürer e Memling) estranei alla grande tradizione di armoniosi equilibrio e bellezza: “or non sapeva il Puntuormo che i Tedeschi e Fiamminghi vengono in queste parti per imparare la maniera italiana che egli con tanta fatica cercò, come cattiva, d’abbandonare?”

Solo agli inizi del Novecento egli è rivalutato, come altri pittori del periodo, e in questo personaggio bizzarro, disegnatore di rango eccezionale, viene riconosciuto l’inizio della nuova “maniera” fiorentina nell’arte, che si allontana da schemi e forme precedenti, immettendo nei temi religiosi il proprio tormento umano, come può vedersi nella sua “Deposizione” (1526-1528). Qui l’allungamento dei corpi verso l’alto, sulle punte dei piedi, e la colorazione chiara delle vesti, che accentua la levità delle figure, inducono una disposizione verticale, disambientata e instabile, dove gli occhi si spalancano, rimanendo dolorosamente fissi, in una scena dominata da vivida luce: una costruzione che altera, anzi disarticola l’iconografia classica e prefigura una nuova stagione.

Pier Paolo Meneghini